ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

20.000 SPECIE DI API | Chiamami col mio nome

Titolo originale: 20.000 especies de abejas

Regia: Estibaliz Urresola Solaguren

Anno: 2023

Produzione: Spagna

una recensione a cura di Elena Pacca

Quanto può essere ingombrante avere delle sembianze che tradiscono ciò che vorremmo essere ma non siamo? E quanto può pesare il non sapere perché, perché si è solo un bambino e nessuno sembra farci caso o quantomeno finge di non farci caso e che vada tutto bene così?

Aitor ha otto anni. Ha un fratello e una sorella. Ha i capelli lunghi e i tratti delicati. Si fa chiamare Cocó. Aitor si vergogna del suo corpo. Non si sente a suo agio. Sofia Otero, premiata con l’Orso d’argento per la migliore interpretazione protagonista alla Berlinale 2023, ha un viso intenso e duttile che modella ad una gamma espressiva che, in assenza di parole esplicative, esprime benissimo l’afflizione, lo sgomento, l’incredulità, il sentirsi fuori posto e, al tempo stesso, non avere contezza di quale sia davvero il suo posto, in un avvicendarsi emotivo che si plasma come una delle statue in cera su cui lavora la madre, Ane, nella casa di campagna dei nonni, nei paesi baschi.

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Una vacanza che assume i contorni di una fuga quando non di un esilio, un allontanamento da una realtà di cui si fa fatica ad accettarne la portata e a sostenerne il peso, in una negazione non malevola ma occultante. Il tempo di un’estate, i momenti morti delle vacanze in campagna, l’approccio con la natura che attrae e cattura i bambini e i ragazzini metropolitani, concedendo quell’inattesa libertà che la città ovviamente non consente. La libertà regala non solo il tempo lieve e spensierato, scevro da obblighi e orari, ma anche il tempo morto, lento, che obbliga a pensare e ripensarsi. Perché anche, o forse soprattutto, un bambino in divenire ha un carico di pensieri enorme e sconfinato. Soprattutto quando il mondo adulto, in evidente difficoltà, tra perbenismo, negazione e inadeguatezza non sa fornire le risposte. Esplicite o latenti che siano. Solo la zia, Lourdes, che continua a portare avanti il lavoro da apicoltrice e che si avvicina ad Aitor comprendendo il tormento interiore che lo macera, saprà essere in qualche modo vicina a quelle istanze di affermazione di ciò che si vuole essere, costi quel che costi. Non solo aprendo gli occhi su quella creatura in divenire ma prestandosi all’ascolto, senza giudicare. E Aitor, capisce quanto sia alto il prezzo dell’ essere se stessi quando prova a rivendicare che il suo nome è Lucia. Come la santa privata degli occhi, tutti attorno a lei sembrano non vedere, farsi ciechi a quanto è così evidente. Essere una bambina nel corpo di un maschio. Un guscio da rompere e da cui venir fuori, alla luce del mondo, una rinascita estetica che passa attraverso una mutazione caratteriale dolorosa e incompresa.

Una ribellione sotterranea che prende corpo, non solo in senso metaforico, attraversando le fasi di una crescita e di una consapevolezza spontanea anche da parte di chi compie analogamente ma diversamente quello stesso percorso. Finalmente l’attribuzione di un nome non è solo un atto formale o incidentale, ma un riappropriarsi imperioso della propria essenza, che equivale a entrare in una nuova realtà con la quale misurarsi, fare i conti, vivere, insomma. 

Con mano felice, la regista, al suo esordio, dirige i protagonisti assegnando personalità e sfaccettature che delineano i sentimenti ed i rapporti tra i soggetti costruendo uno scenario credibile e sincero, nel chiaroscuro delle storie di ciascuno. Nelle debolezze e nei punti di forza, in una miscela in cui smarrimento e determinazione, timore e coraggio, si avvicendano con la coerenza del reale, pur in un ambiente che scarta il cronachismo, rifugge la morbosità e stempera il dramma in un mondo non privo di poesia, fascinazione e incanto.

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