una recensione a cura di Liliana Giustetto
– Perché l’hai fatto?
– Perché potevo.
Chi è il vero colpevole?
Chi può dire di non esserlo?
Chi capisce di esserlo?
La versione nordica e la versione americana: due scuole di recitazione per la stessa storia.
Titolo: Il colpevole – The Guilty (Den skyldige)
Regia: Gustav Möller
Anno: 2018
Produzione: Danimarca
Un regista all’esordio, un unico protagonista, una regia quasi esclusivamente a mezzo busto o in primo piano. Nessun esterno, solo l’apparizione per qualche attimo di un secondo personaggio.
Un compito difficile svolto in maniera eccelsa.
La trama è intensa ed asciutta. La storia, apparentemente semplice, parte come racconto di un momento difficile nella vita di un poliziotto e diventa un thriller inaspettato, nel tentativo di salvare una donna rapita che ha telefonato per chiedere aiuto.
La recitazione tipicamente nordica di un attore a noi sconosciuto (Asger Holm), che vediamo per tutta la durata del film parlare al telefono di un centralino di emergenza della polizia, ci propone solo i dettagli del viso, quasi impassibile, del poliziotto, che intuiamo essere invece sempre più coinvolto nella vicenda. Una vicenda che lascia sconvolto lui, come noi.
Tanto da spingerlo a dirottare il suo futuro in una direzione che avrebbe voluto evitare, ma che ormai capisce essere giusta e liberatoria. Il titolo è illuminante.
Inevitabile il confronto con lo stile minimalista di Locke, del 2013, scritto e diretto da Steven Knight, girato totalmente sul viso di un uomo – Tom Hardy – che guida tutta la notte parlando al telefono per salvare i rapporti con la propria famiglia, mentre sta facendo andare a rotoli la propria carriera facendo la cosa che ritiene giusta in quel momento. Assistere una donna che sta per partorire suo figlio, concepito per l’errore di una notte, una donna che non merita di rimanere sola in un momento simile.
Ho visto Den skyldige tre volte al cinema, compresa l’anteprima al 36° TFF dove ha vinto per Miglior attore in ex-aequo, Miglior sceneggiatura e Premio speciale del pubblico in ex-aequo. Un film magnifico nella versione originale, dove la secca lingua danese rende benissimo il paesaggio emotivo del protagonista, facendo da controcanto agli avvenimenti frenetici che avvengono fuori campo.
Titolo: The Guilty
Regia: Antoine Fuqua
Anno: 2021
Produzione: Stati Uniti d’America
Jake Gyllenhaal non ci ha pensato due volte quando ha visto un personaggio così perfetto da interpretare. Infatti, di questa versione americana del film originale danese del 2018, è anche il produttore.
Distribuito direttamente su Netflix e diretto da Antoine Fuqua, bravo professionista del genere d’azione.
In effetti, nulla si può obiettare all’interpretazione data da Gyllenhaal di questo poliziotto in profonda crisi personale.
Un’interpretazione “americanizzata”, dove la rabbia, lo sconforto e lo stress sono tangibili sul volto di un protagonista che qui è – a differenza di quello del poliziotto nordico Asger Holm, del film originale danese – mobilissimo, sudato, distorto per il dolore fisico e psichico.
La narrazione è quasi identica all’originale, ma viene situata durante un disastro naturale in California, per cui, all’inizio vediamo degli esterni, che nel
film danese ci erano preclusi, durante una seri di gravi incendi. Le battute e le chiamate ricevute dal centralino di soccorso della polizia sono pressoché uguali, ma diversa è la situazione personale del protagonista che, oltre a guai legali, ha anche problemi di salute e di rapporti con la ex moglie e con la figlia.
Se la vicenda principale scorre allo stesso modo, nel tentativo di salvare una donna rapita che ha contattato la polizia, guidando l’azione dal telefono della centrale, il finale è diverso, lasciandoci cogliere le diversità di prospettiva tra il finale danese e quello americano, rispettivamente in linea con le attese delle diverse tipologie psicologiche e sociali dei due Paesi.
Sono sempre incuriosita dai remake e questo merita di essere visto, indipendentemente dal fatto che si conosca l’originale.