ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

[SPECIALE] IL SOL DELL’AVVENIRE | Moretti, e Moretti sempre, e fortissimamente Moretti

Regia: Nanni Moretti

Anno: 2023

Produzione: Italia

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Tornare a distanza di tempo in una vecchia casa che si è a lungo frequentata – come, ad esempio, quella dei propri nonni o di un lontano prozio – e sentirsi naturalmente a proprio agio riconoscendo ogni mobile, suppellettile, ninnolino o quadro in cui ci si imbatte muovendosi nelle varie stanze, alla ricerca – magari – dei propri ricordi. E, oltre a tutto questo, una nota di nostalgia e di malinconia per ciò che quel luogo ha significato, insieme a ciò che ad esso è legato: la giovinezza, i ritrovi famigliari, gli incontri, la crescita.

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Questa è l’impressione che trasmette, in un certo qual modo, il nuovo film di Nanni Moretti: il (ri)trovarsi, insieme a lui, nella “comfort zone” intellettuale e politica di uno dei nostri cineasti più amati, capace in passato di folgoranti commenti, idee a anticipazioni sullo spirito dei tempi, si pensi – solo per citare alcune delle sue opere – a Palombella rossa (1989), Aprile (1998) e Habemus Papam (2011). Ma anche, di conseguenza, la sensazione di un che di già visto, di prevedibile e – quindi – di “superato”. Con il quale, è bene dirlo, si può essere d’accordo in toto poiché si condivide – da spettatore e da cittadino – un certo modo di vedere e interpretare la realtà che ci circonda, ma dal quale promanano sia un’inaspettata sensazione di déjà vu, sia idee in odor di “retroguardia” sull’attuale condizione del cinema.

Come giudicare, infatti, l’idea di rappresentare il lavoro di un regista (guarda caso di nome Giovanni) intento a girare un film ambientato a Roma nel 1956 – nei giorni della crisi ungherese, con i carri armati sovietici che entravano a Budapest – attraverso le vicende del piccolo circo Budavári, invitato a Roma dall’attivo segretario di una sezione del Partito Comunista Italiano (Silvio Orlando)? Il discorso politico svolto intorno ai tragici eventi del 1956 – con la tesi, certo non nuova, che il comunismo mondiale e quello italiano si sarebbero salvati appoggiando Imre Nagy e lasciando l’URSS al suo destino totalitario – si intreccia con il discorso sul cinema impegnato (di Moretti) e sulle idee del regista su come la settima arte e ciò che le sta intorno si sta muovendo.

In tale contesto, è troppo didascalica e in parte grottesca – e poi non così condivisibile – l’immagine che Moretti dà del giovane regista che gira un film d’azione prodotto dalla moglie, nonché dei propri collaboratori con i quali sta preparandosi a girare la storia sui comunisti italiani del ’56 e sui fatti d’Ungheria. La critica sull’ignoranza delle nuove generazioni è certo comprensibile, ma si resta con l’inevitabile sensazione di un’opera che ha il principale scopo di farci sentire migliori nel veder rappresentata (e irrisa) sullo schermo l’altrui “impreparazione” e, per converso, la propria “conoscenza”. Questo è l’indubbio rischio che il nuovo film di Moretti corre: una sorta di elitarismo e di critica delle condizioni in cui ci troviamo, che – purtroppo – aiuta al più a prendere atto del “come” sono le cose e non del “perché” esse siano proprio così.

E analogo rischio vale per il discorso sul cinema, che liquida Netflix con una boutade certo divertente ma, altrettanto chiaramente, frettolosa e superficiale. Poiché se da un lato le piattaforme digitali stanno stravolgendo (hanno già stravolto) il mondo del cinema e le modalità di fruizione dello stesso, dall’altro lato hanno finanziato – proprio Netflix su tutti – produzioni per il grande schermo di una certa rilevanza, come hanno potuto sperimentare cineasti quali Baumbach, i fratelli Coen, Cuaròn, Fincher, Scorsese, Sorrentino e altri (in rigoroso ordine alfabetico). I cui film, riassuntivi e antologici di uno stile e di un’intera carriera, appartengono a una categoria affine, in fondo, a Il sol dell’avvenire di Moretti, che avrebbe potuto essere un nuovo esempio di produzione enciclopedica di Netflix (e dello stesso Moretti).

Non si può che concludere, quindi, con un autentico moto di solidarietà verso la moglie di Giovanni, interpretata da una sempre più convincente Margherita Buy. Come lei, infatti, anche lo spettatore (e fan) di Nanni Moretti rischia di provare una certa stanchezza per la riproposizione all’ennesima potenza del Moretti medesimo e di rivolgersi altrove, magari alle molte serie della vituperata piattaforma, contribuendo all’ulteriore successo della stessa in uno dei centonovanta (190) paesi raggiunti. E a nulla servirà ricorrere al cinema come realizzazione utopica (e ucronica) già proposta da Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood e, in chiave politica e quindi ancor più simile, da Marco Bellocchio in Buongiorno, notte.

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