Regia: Saskia Boddeke
Anno: 2017
Produzione: Paesi Bassi
una recensione a cura di Elena Pacca
I never thought this day would end
I never thought tonight could ever be
This close to me
Just try to see in the dark
Just try to make it work
To feel the fear
Before you are here
[Close to me – The Cure]
Un atto d’amore poetico. Un alfabeto sentimentale che declina in funambolico equilibrio, tenerezze, manie, vezzi e pensieri di un pittore cineasta, di un uomo che sembra saltellare lungo i bordi di un cinema autoriale, mai scontato, personalissimo, visionario e pervicace, immergendosi nelle acque scure delle sue ossessioni, e poi, sullo schermo, in quelle chiare di un mare aperto affrontando, se non sconfiggendo, paure ataviche.
In occasione del conferimento della Stella della Mole all’ultraottantenne Peter Greenaway, a Torino è stata dedicata una serata cinematografica con il lavoro della moglie Saskia Boddeke che ritrae in modo ravvicinato e intimo un uomo e una ragazza, un marito/padre e una figlia. Un dialogo che racchiude dolcezza, impertinenza e un vincolo parentale che a tratti si annulla e ci mette di fronte a due individui complessi, livellati, ma non per questo annullati, in un’età indefinita, similare, sullo stesso piano dialettico nei confronti delle tante cose evocate dalle lettere dell’alfabeto a stencil che vediamo formarsi nelle pause e negli stacchi. Peter e Pip sono due presenze fortissime che riempiono la scena, si alternano a fotogrammi dei film che hanno reso celebre il padre e scandiscono un tempo denso e leggero, una trasformazione molecolare che avviene continuamente sotto i nostri occhi. Occhi che incontrano lo sguardo diretto e sottilmente inquisitorio di Greenaway che sembra guardare noi dritti e a fondo e aprirci una fessura di luce per entrare nei meandri della sua mente, attraverso labirinti di pensiero e di emozioni che sembrano celate dietro una compassatezza vestimentaria – gli amatissimi completi gessati – e poi si schiantano nell’irriverenza di nude terga mostrate con altrettanta eleganza. Attraversiamo gli anni di una ragazza quindicenne che sembra avere le idee chiarissime e le spalle forti per sostenere il peso di due genitori “ingombranti”, pur rivelando timori e perplessità di fronte agli sproloqui paterni. “A ottant’anni penso di uccidemi”.
In un raro lavorìo su sguardi, corpi, parole e immagini, Boddeke elabora una perfetta misura della distanza stando addosso ai suoi soggetti, e contemporaneamente allargando i confini attorno a loro, concedendo spazio e ariosità anche quando la loro presenza invade lo schermo. Fragilità, forza, determinazione e progettualità. Promesse e convinzioni. Un’allegoria di colori e forme, simmetrie e elementi spuri che transitano sullo schermo offrendoci il senso di una composizione pittorica dove hanno lasciato traccia frammenti Hieronymus Bosch o Francis Bacon o tutta una genia di artisti che si sono sedimentati nell’immaginario poetico e filmico di un cineasta e della sua compagna, regista e ideatrice di forme d’arte multimediale di varia natura, anch’essa. Il barocchismo si infratta nelle wunderkammer allestite per i set di Peter Greenaway e trova sbocco in un nitore nordico, a tinte fredde che si mescola benissimo con certe cupezze cromatiche. Il disvelamento è parziale, monco. Le lettere mancanti sono un’omissione che ci viene in soccorso del mistero che deve permanere per continuare il nostro esercizio introspettivo e rivelatorio di una figura inedita che ci piace immaginare e ricreare anche e non solo a nostro piacimento. Saskia Boddeke ci dà uno strumento di conoscenza un abbecedario che ha ancora molti spunti di racconto e che ci fornisce alcune chiavi di lettura indugiando e sorvolando su una vita vissuta, vivente e da vivere. Il tempo che rimane, ciò che rimarrà di noi, il lascito artistico e umano. Su tutto ciò emerge Pip, mutevole come la forma dell’acqua, principessa delle onde e del pensiero che vive una vita forse piena di stranezze, ma ricca, estrosa, piena di possibilità, futuro e trabocchevole amore.