ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

CIVIL WAR | L’improbabile è possibile

Regia: Alex Garland

Anno: 2024

Produzione: Stati Uniti d’America, Regno Unito

una recensione a cura di Chiara Lepschy e Giuseppe Minerva

Civil War è il quinto lungometraggio del regista britannico Alex Garland e giunge nelle sale di tutto il mondo a poco più di sei mesi dalle 60e elezioni presidenziali della storia degli Stati Uniti d’America. Il tema principale del film – non l’unico ma di certo il più importante – è quello di una guerra intestina fra le strade delle città statunitensi: di una paventata seconda guerra civile, divenuta realtà nel film, si parla sin dal 6 gennaio 2021, giorno in cui si verificò lo storico assalto al Campidoglio di Washington. Inizialmente considerato poco più di una sceneggiata (si pensi al più noto dei protagonisti della vicenda, Jake Angeli detto lo “Sciamano”) con il passare del tempo ha assunto sempre più i contorni di un vero e proprio tentativo di insurrezione, fomentato – in modo più o meno diretto – dall’ambiguo atteggiamento del Presidente uscente Donald Trump, che rifiutò inizialmente di riconoscere la vittoria di Joe Biden.

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Agli eventi di quel giorno Garland non fan alcun cenno, anche se è a quell’humus di valori e disvalori politici – e a quelle perturbanti tensioni – che la mente dello spettatore corre inevitabilmente alla visione delle prime immagini. Il film si apre, infatti, a guerra civile non solo già in corso ma giunta – addirittura – alla fase terminale e nulla viene spiegato circa le ragioni del conflitto e su chi lo abbia scatenato: nessun riferimento di alcun genere ai partiti Democratico o Repubblicano, quindi, ma solo un accenno al fatto che a ribellarsi alla autorità centrali è stata una Western Alliance costituita dalla California e dal Texas, alleata – a sua volta – con la Florida. La narrazione inizia, infatti, con le truppe ribelli che puntano ormai su Washington per catturare il Presidente e sollevarlo dall’incarico.

In tale contesto si muovono i personaggi principali del film: Lee Smith (Kirsten Dunst), fotografa dai più importanti fronti di guerra degli ultimi anni; Joel (Wagner Moura) giornalista sul campo; Sammy (Stephen McKinley Henderson), anziano decano del giornalismo di guerra probabilmente alla sua ultima missione e Jessie Cullen (Cailee Spaeny), giovane aspirante fotografa decisa a fare esperienza. Mentre i primi tre si conoscono da lungo tempo, Jessie è solo una novizia che entra in contatto con Lee – suo mito professionale – durante un attentato dal quale è proprio la famosa fotografa a salvarla.

Poiché la fine della guerra sembra ormai vicina, Lee e Joel vogliono raggiungere la capitale e tentare il grande scoop di un’intervista al Presidente nelle ore che precedono la sua sconfitta e deposizione. Un Presidente che nonostante il conflitto volga ormai a suo sfavore, continua a mentire spudoratamente, affermando di essere vicino alla vittoria, forse l’unico accenno fatto dal regista a un retroterra “trumpiano” spesso caratterizzato dalla tendenza senza freni alla menzogna e alla manipolazione, tanto ridicola quanto pericolosa. A Lee e Joel si aggregano sia Sammy, sia Jessie, che insieme affrontano un lungo viaggio in auto per raggiungere Washington e documentare la fine degli Stati Uniti d’America come oggi li conosciamo.

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Alex Garland confeziona un buon film, seppur non memorabile, sfruttando le potenzialità del classico road-movie e del genere apocalittico-distopico ai quali si richiama e ispira. La sottesa (e angosciante) attualità elettorale concorre a completare un’opera che testimonia, ancora una volta, due fondamentali caratteristiche che gli Stati Uniti (l’America, come amano definirsi) hanno: da un lato, il peccato originale del ricorso alla violenza come atto fondativo della (nuova) nazione e della sua evoluzione storica (da parte di chi, fra l’altro, quella violenza subì  – in molti casi – con l’espulsione forzata dall’Europa) e, dall’altro lato, la convinzione – da parte dell’intellighenzia liberal di cui fa parte il regista, seppur britannico – di avere in sé gli anticorpi per reagire in qualche modo a tutto ciò. Girare un film come Civil War (o se vogliamo, per citare un titolo recente di ben altro livello, come Killers of the Flower Moon di Scorsese) è uno di quegli atti di resistenza etico-politica in cui la capacità di descrivere in modo sincero e consapevole le proprie lacune rischia di scontrarsi – però – con la difficoltà di mettere realmente in discussione nella vita di tutti i giorni – e quindi nella società – il mito fondativo della libertà americana, con tutto il suo meglio e il suo peggio.

Davvero di grande impatto – per quanto limitata a un breve cameo – la figura del suprematista bianco interpretato da Jesse Plemons, incastonata in una delle sequenze meglio riuscite e di maggior tensione del film, candidata a entrare nell’antologia dei migliori (para)militari folli della storia del cinema.

Buona l’idea di un gruppo di personaggi che ben rappresenta non solo – da un punto di vista visivo – le tre età dell’uomo con la giovane e inesperta Jessie, gli adulti e maturi Lee e Joel e l’ormai anziano Sammy, ma anche – e forse ancor più – le diverse angolature dalle quali affrontare il tema della notizia giornalistica e il valore delle immagini. Immagini che documentano la brutalità degli eventi e influenzano il giudizio dello spettatore/lettore, in un senso o nell’altro, proprio sulla base di un singolo scatto iconico. E che, in quanto iconiche o potenzialmente tali, pongono l’autore di fronte al dilemma morale del loro uso pubblico: e quindi immagini cancellate come gesto di pietas da parte di Lee Smith, o scattate alla propria mentore come tributo ma anche personale scoop, fino al trofeo di guerra per eccellenza rappresentato dall’ultima immagine del film. Sul prezzo da pagare per la notorietà e la ricerca dello scatto perfetto, Garland non si pronuncia e lascia il giudizio allo spettatore.

Poco brillanti, infine, i dialoghi – forse non fondamentali in quello che è pur sempre un film di guerra/azione – che risultano non poco stereotipati, in particolare nel caso della protagonista e dell’aspirante – e priva di scrupoli – giovane fotografa.

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