GLI ANNI DI CORSA

Les Années sandwiches, Francia 1988 / Durata [min] 100′

Genere: Drammatico

Regia: Pierre Boutron

Cast: JMichel Aumont (lo zio Jean), Patrick Chesnais (Armand), Clovis Cornillac (Bouboule), Nicolas Giraudi (Felix), Philippe Khorsand (Sammy), Thomas Langmann (Victor), Francois Perrot (Felix adulto), Wojtek Pszoniak (Max)

Fascia età personaggi: adolescenza 


Sinossi

Parigi, estate del 1947. Victor, quindicenne ebreo di origine polacca, orfano dei genitori morti in un campo di concentramento, fugge dalla famiglia di adozione e arriva nella capitale francese. Nel metrò incontra Felix, suo coetaneo, costretto a passare le vacanze in città per punizione. Tra i due nasce un sentimento di amicizia. Victor trova lavoro come garzone presso Max, un rigattiere ebreo. Grazie a Felix e Max, la vita di Victor prende una buona piega. Scambia libri e interessi con il coetaneo, impara presto a non farsi ingannare nel mondo del mercato nero. Finite le vacanze, Felix e Victor non si vedono più. Max decide di tenere a lavorare con sé quel giovane ragazzo e aggiunge al suo personale album fotografico di ebrei deportati anche la foto dei genitori di Victor. Per il piccolo ebreo questo gesto vale molto più di qualsiasi parola.


Critica

Il tema della deportazione e della shoah risulta centrale per l’analisi e la comprensione del film. Dietro ogni esperienza adolescenziale di Victor, all’amicizia con Felix, ai piccoli lavori da garzone, all’integrazione nella vita della banlieue, c’è il non-detto più difficile da mascherare: il suo essere orfano perché madre e padre sono stati uccisi in un campo di concentramento. Per quanto serena e piacevole, l’adolescenza di Victor non può che essere segnata da questa esperienza tragica, proprio come il numero impresso sulla pelle del buon Max, segno che può risultare non visibile e ormai indolore, in realtà imperterrito testimone di una ferita sempre aperta. La cornice del racconto lo riprova: iniziando e finendo con la descrizione di un attentato antisemita ai giorni nostri, la pellicola vuole affermare l’attualità dell’antisemitismo e il desiderio di riflettere, seppur in chiave ironica e leggera, sull’intolleranza politica, religiosa e razziale. Sotto questa prospettiva, i positivi “quattrocento colpi” di Victor, la dimensione lieve e giocosa della storia, lo sguardo partecipe del regista, appaiono quasi come una sorta di contrappasso alla rovescia, una meritata ricompensa dopo le terribili sofferenze provate. Arrivando dalla campagna alla città il giovane ebreo trova ben presto in Felix l’amico fidato e comprensivo. Con lui ha passioni in comune, fa scambio di libri, va al cinema la domenica. L’amicizia, vissuta senza secondi fini, è il primo elemento che si sostituisce alla famiglia mancante per dare a Victor quelle attenzioni, cure e sentimenti necessari per la sua crescita. Non esistono barriere che tengano di fronte a un rapporto così forte e intimo. Non importa dunque che Felix sia un ragazzino ricco: la diversità di classe sociale non può allontanare i due amici. Il secondo elemento che riempie il vuoto affettivo di Victor è la sua appartenenza a una comunità religiosa, culturale e razziale. Max, rigattiere ebreo, rappresenta per il ragazzo la memoria, il passato, il legame con la propria cultura d’origine, anche se per nulla conosciuta. L’uomo è solito tenere un lumino sempre acceso, attorno al quale ha depositato le foto della moglie e dei figli morti nei lager nazisti. Quando decide di tenere in bottega il ragazzo, anche dopo l’estate, Max prende la foto dei genitori di Victor e la mette insieme a quella dei suoi cari. È un gesto ben più importante di qualsiasi parola e, persino, della stessa assunzione. È un atto simbolico: Victor è entrato nella famiglia del rigattiere, la memoria dei suoi genitori sarà preservata per sempre come quella dei parenti di Max, almeno fin quando ci sarà qualcuno che manterrà acceso il lume del ricordo.