IL TEMPO DEI CAVALLI UBRIACHI


Zamani baraye’ masti ashba, Iran 2000/ Durata (min) 80′

Genere: Drammatico

Regia: Bahman Ghobadi

Cast: Ayoub Ahmadi (Ayoub), Madi Ekhtiar-Dini (Madi), Amaneh Ekhtiar-Dini (Amaneh), Rojin Younessi (Rojin), Nezhad Ekhtiar-Dini, Karim Ekhtiar-Dini, Kolsolum Ekhtiar-Dini, Osman Karimi, Rahman Salesi;

Fascia età personaggi: infanzia


Sinossi

Nella parte iraniana del Kurdistan vive una famiglia di cinque fratelli, ai limiti della sopravvivenza, orfani di padre e di madre. Il più grande dei cinque, Madi, è affetto da nanismo e ha urgente bisogno di essere operato. Per racimolare i soldi necessari, il quattordicenne Ayoub trasporta merci di contrabbando tra l’Iran e l’Iraq, nel pieno dell’inverno, sopra vecchi muli, ubriacati di alcol dai padroni per non far sentir loro il freddo. Dopo due mesi, il ragazzo non è riuscito a mettere da parte quasi nulla. Allora la sorella maggiore, per permettere a Madi un futuro, si concede in sposa a un ricco signore iracheno, disposto a far operare il ragazzo nano in Iraq. Quando però le due famiglie si incontrano, su un altipiano innevato al confine tra i due Paesi, la madre dell’uomo rifiuta di prendersi carico di Madi, regala alla famiglia un cavallo e se ne va con la novella sposa. Ayoub e i fratelli tornano in Iran sconsolati. Ed è sempre meno il tempo per operare Madi.


Critica

Ayoub suda, ansima, respira affannosamente e trema dal freddo. Durante ogni suo viaggio clandestino ha paura di essere scoperto da un momento all’altro dalla polizia di confine e di dover scappare per salvare la pelle in mezzo alla neve, attento a non perdere le merci, a non staccarsi dal suo mulo, ubriacato di alcol perché possa resistere al gelo invernale ma incapace così di rendersi conto del pericolo. Accanto a lui, la natura è impassibile, silente e apparentemente esanime, indifferente alla drammatica condizione del personaggio, arida, selvaggia, impervia. L’ambiente naturale, grazie a uno stile documentario che aderisce ai personaggi e al contesto geografico, all’assenza di musica di commento e di qualsiasi altro filtro artificiale, si staglia così a elemento principale del racconto, cornice realistica della pellicola che, scena dopo scena, si fa protagonista del messaggio filmico. La terra calpestata da Ayoub è, infatti, quella di una nazione, il Kurdistan, stato fantasma diviso tra Iran, Iraq, Siria e Turchia, non legittimata da alcun organismo internazionale, è la casa di un popolo che combatte per la propria autodeterminazione da molti secoli, senza riuscirci. La lotta per la sopravvivenza di Ayoub è la rappresentazione simbolica di una contesa che ha come obiettivo non solo la sussistenza ma, soprattutto, il riconoscimento della propria identità culturale e storica, come se i fratelli del ragazzo fossero i fratelli curdi del regista. L’attaccamento di Ayoub alla terra, proprio perché inospitale e selvaggia, avvalora la tesi di una lotta che non è solo per un tozzo di pane o per racimolare i soldi di un’operazione, ma per affermare i diritti sociali e politici di un popolo. Tuttavia il film non parla esplicitamente di temi politici o ideologici, lasciandoli a una seconda lettura metaforica e preferendo narrare le storie vere di questa coraggiosa famiglia. Caratteristica essenziale della pellicola è, infatti, la veridicità degli eventi rappresentati: i cinque fratelli non sono attori professionisti ma interpretano se stessi; i cavalli, o meglio i muli, vengono veramente ubriacati, in quelle regioni, per sostenere il freddo; il commercio clandestino tra l’Iran e l’Iraq è effettivamente lasciato in mano ai minorenni, più svelti a scappare o a nascondersi alle guardie; il lavoro minorile non è un’eccezione ma la regola, non un fenomeno osteggiato ma una necessità sociale, visto che una famiglia ha maggiore speranza di sopravvivenza quanti più componenti della stessa lavorano. La storia di Ayoub assume valore di testimonianza: essa documenta una realtà di estrema povertà, di rigida immutabilità degli eventi, come il freddo e la neve che sono presenti nel corso di tutto il film, di impotenza di chi osserva, sia esso spettatore o regista, come risulta evidente dalla sequenza del matrimonio combinato: quando la famiglia irachena rifiuta di prendersi carico di Madi, la cinepresa non viene situata al centro dell’azione ma in cima a una collina, lontanissima dall’evento, impossibilitata anche solo a sentire le parole dei protagonisti. Lucidamente lo spettatore si accorge di quanto lontana sia la sua condizione rispetto a quella di Ayoub e, soprattutto, quanto il ragazzo sia lasciato solo di fronte agli eventi.