MILLENIUM MAMBO

 



Qianxi manbo, Taiwan 2001 / Durata (min) 119′

Genere: Drammatico

Regia: Hou Hsiao-Hsien

Cast: : Niu Chen-Er (Doze), Shu Qi (Vicky), Jack Kao (Jack), Chen Yi-Hsuan (Xuan), Jun Takeuchi (Jun), Tuan Chun-Hao (Hao-Hao);

Fascia età personaggigiovani adulti


Sinossi

La voce narrante di una giovane ragazza racconta la storia che la ventenne Vicky ha vissuto quasi dieci anni fa, nel 2001. Vicky si è da poco trasferita a Taipei in cerca di lavoro. Qui, frequentando i locali notturni della città, s’innamora di Hao-Hao, un giovane insicuro, irascibile e un po’ sbandato, senza lavoro, con cui va a convivere nel suo appartamento dopo qualche giorno. Il menage con Hao-Hao si rivela da subito problematico, visto l’istinto possessivo e la gelosia del ragazzo e, più in generale, l’estrema precarietà delle loro esistenze. Sebbene maltrattata da Hao-Hao, Vichy sembra non riuscire a staccarsi dal compagno, anche dopo che questi viene arrestato dalla polizia per avere rubato l’orologio del padre. Solo dopo essere stata picchiata, qualche tempo più tardi, Vichy decide di abbandonarlo. A quel punto si lega a Xuan, giapponese di Hokkaido dove va a trascorrere il Natale, ma anche questa relazione sfuma in breve tempo. Poi si affida alle cure amorevoli di Jack, un piccolo boss della malavita che incontra nel locale dove si esibisce come spogliarellista. L’uomo le dà sicurezza, benessere, stabilità, ma la nuova situazione relazionale non consente alla ragazza di trovare un lavoro “normale” (come le chiede Jack) e di uscire dal tunnel dell’alcolismo e della vita notturna. Quasi senza accorgersene, Vichy si ritrova di nuovo sola, dopo la fuga improvvisa di Jack (per evitare di farsi uccidere da altri malavitosi). Torna a Hokkaido, per passare qualche tempo con Xuan. C’è un festival del cinema, i ragazzi si divertono a vedere i vecchi cartelloni pubblicitari dei film. Forse è un modo, per Vichy, di ricominciare una nuova vita.


Critica

Una voce narrante onnisciente, calda, calma e suadente, proprio come quella della protagonista punteggia e organizza il flusso non lineare del racconto, cerca di illustrare gli avvenimenti e i sentimenti di Vichy, giovane ragazza ventenne alla ricerca di un “perché”, di un “come” e di un “con chi” alla propria vita. La voce narrante afferma che le vicende rappresentate risalgono a ben dieci anni prima, ossia al 2001, anno di transizione tra un millennio e l’altro. Lo scarto temporale determina un interessante contrappunto tra la voce narrante situata nel futuro, che racconta avvenimenti occorsi in un passato relativamente lontano e le immagini contrassegnate alla dilatazione sempre più eccessiva del presente filmico, quello che registra, senza stacchi, le azioni sconclusionate e confuse della protagonista. La collisione tra futuro, passato e presente annuncia il tema apicale del film, ossia l’incedere disorientato e frammentario dell’esistenza di una ventenne. A differenza di altri film, qui la confusione emotiva e relazionale della ragazza, che tocca in alcuni momenti il vero e proprio disagio psichico, non passa attraverso la minuziosa descrizione psicologica di un personaggio o l’illustrazione didascalica di un contesto sociale/famigliare che favorisce percorsi di vita autodistruttivi, ma, al contrario, in presenza di una macchina da presa che registra, fredda, eventi disorganici che tra loro non hanno alcuna relazione di causa ed effetto, si lega alle tecniche stilistiche del film che trasmettono la vacuità di certe esperienze e la fragilità di tutti i personaggi sulla scena. Si pensi ai colori scelti dal direttore della fotografia per restituire un universo di luci fredde, metalliche, grigie per la postindustriale Taipei o di bianchi della neve intensi e ipnotici per la montagnosa Hokkaido. Si pensi al tempo del racconto discontinuo, ellittico, antilineare. Si pensi, ultimo punto di un elenco che potrebbe continuare ancora a lungo, alla scelta di rinunciare, quasi del tutto, ai campi lunghi, ai piani di ambientazione, ai piani totali, in modo da mantenere la cinecamera schiacciata contro i personaggi e privare lo spettatore di punti di osservazione distaccati, lucidi, onniscienti. Si tratta di tecniche, queste, che hanno delle ricadute evidenti sulla storia narrata e sulla caratterizzazione della protagonista, come dimostra l’uso di molte immagini sfocate quando Vichy non rinuncia a provare l’ebbrezza della droga. L’esperienza narcotica è, tuttavia, da estendere ad ogni istante della sua vita e, in modo particolare, al suo modo di relazionarsi con gli uomini, unico baricentro di una esistenza peraltro priva di alcuna prospettiva. Tutto per Vichy, insomma, ruota intorno al gioco dell’amore, come se il rapporto sentimentale rappresentasse l’unica dimensione che vale la pena vivere pienamente e l’unico modo per dimostrare di avere una propria identità. Si tratta di un’identità certamente limitata, proiezione di quella dei propri compagni del momento, ciononostante indispensabile alla sua sopravvivenza: solo sentendosi oggetto di desiderio maschile, giocatrice in una partita di adescamenti e fughe, di capricci e indifferenza, Vichy entra in contatto con il mondo che la circonda. È una sorta di tossicodipendenza la sua, una narcosi che non viene meno né con l’inevitabile fuga, né con l’inevitabile fallimentare percorso di disintossicazione. Alla fine del tunnel resta soltanto una memoria personale piena di caselle vuote, lampi di vita, ed un soffuso, diffuso e confuso “male di vivere” generazionale.