Y tu mamà tambìen, Messico 2001/ Durata (min) 105′
Genere: Drammatico, Commedia Drammatica
Regia: Philippe Lioret
Cast: Vincent Lindon (Simon Calmat), Firat Ayverdi (Bilal), Audrey Dana (Marion Calmat), Derya Ayverdi (Mina), Thierry Godard (Bruno), Selim Akgul (Zoran), Firat Celik (Koban), Murat Subasi (Mirko), Olivier Rabourdin (ispettore), Yannick Renier (Alain), Mouafaq Rushdie (padre di Mina), Behi Djanati Atai (madré di Mina), Patrick Ligardes (il vicino di Simon), Jean-Pol Brissart (il giudice)
Fascia età personaggi: adolescenza
Sinossi
Bilal, un ragazzo diciassettenne iracheno di origini curde, vuole raggiungere la sua ragazza Mina a Londra. Giunto sulle coste di Calais e accortosi di non riuscire a raggiungere la Gran Bretagna nascosto nelle pance dei camion per via dei rigidi controlli alla frontiera, decide di attraversare il canale a nuoto. Come se non bastasse il ragazzo non sa nuotare e per questo va a lezioni nella piscina del paese dove conosce Simon un istruttore burbero e triste che sta per divorziare da Marion, volontaria di un’associazione umanitaria. L’uomo acconsente di insegnare a nuotare al giovane curdo solo per riconquistare il cuore dell’ex moglie, ma se il rapporto all’inizio è di tipo esclusivamente professionale, con il passare del tempo tra i due nasce una forte relazione di amicizia e stima. Per aiutare Bilal, Simon non gli impartisce solo lezioni di nuoto, ma lo accoglie in casa e lo spaccia per figlio adottivo durante un interrogatorio della Gendarmeria per fare in modo che non venga arrestato. Nonostante la nobiltà di intenti dei due protagonisti, l’impresa si rivelerà impossibile da portare a termine e il nome di Bilal si aggiungerà ai tanti emigranti morti per esaudire un sogno di normalità e sopravvivenza.
Critica
La tesi che supporta il film potrebbe apparire estrema: la Francia di Sarkozy tratta gli immigrati irregolari come quella di Vichy trattava gli ebrei, ovvero con leggi “razziali” che mirano alla concentrazione degli stranieri e favoriscono la delazione dei francesi. Due facce della stessa medaglia che, secondo il governo, devono andare a braccetto se si vuole lottare contro l’immigrazione clandestina. Ed infatti grande attenzione nel film viene dedicata alle indagini striscianti della Gendarmeria, all’atteggiamento dei vicini di casa di Simon pronti a denunciare il vicino perché la sua casa è frequentata da due ragazzi mediorientali, alle “retate” contro le associazioni di volontariato che aiutano i profughi, ai controlli rigidi alle frontiere. È uno stato di polizia quello con cui hanno a che fare i protagonisti del film. Tra questi ultimi si costruisce un’interessante rete di relazioni fondate sulle assonanze e sulle specularità. Il loro è un rapporto intergenerazionale che segue un percorso di lento e non scontato avvicinamento, fondandosi su silenzi, sguardi, illusioni e sogni irraggiungibili. Analoga specularità si trova anche nel rapporto tra il bisogno di pulizia provato dai migranti e l’opera di pulizia realizzata dalla pubblica autorità in un caso e da Simon nell’altro. È l’altra faccia della “dittatura”, quella di trovare pur sempre qualcuno disposto alla solidarietà, a fare implicita e non cosciente “resistenza”, anche solo fingendosi padre per proteggere e salvare un figlio putativo in pericolo. Anche l’ambientazione ha un suo fascino ambiguo, bipolare, come spesso capita ai luoghi di mare o di confine. Un po’ città, un po’ provincia, un po’ paesaggio naturale, un po’ paesaggio apocalittico, Calais sembra incarnare perfettamente lo spirito della pellicola, la sua narrazione fredda e asciutta come il vento della Normandia, così come la sofferenza muta e sorda dei personaggi. Ha il paradosso di presentarsi con tutte le caratteristiche dei luoghi di viaggio pur restando immobile a se stessa. Riuscendo così a prefigurare, indirettamente, l’esperienza migratoria di Bilal, il suo muoversi per migliaia di chilometri e il contemporaneo immobilizzarsi attorno ad un’idea che lo porterà alla morte.