ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE

FREMONT | Desperate for a Dream

Regia: Babak Jalali
Anno: 2023
Produzione: Stati Uniti d’America

una recensione a cura di Elena Pacca

“Alcuni cercano la felicità, tu creala”

Fremont è un luogo fisico, mentale e culturale. Appartiene a coloro che ci vivono protetti dal senso di comunità e da chi, come Donya, si sente corpo estraneo, straniero nella propria enclave di spatriati o espatriati. Fremont, la “piccola Kabul” è un pezzo di Afghanistan ai margini di San Francisco. Donya sovverte il suo orizzonte predestinato. Si affranca da un vissuto e da un passato e si avventura verso una nuova vita. O, quanto meno una non segnata, predeterminata, ma all’insegna delle possibilità. Perché la felicità è (o potrebbe essere) in un altro biscotto.

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Fremont e un bianco e nero quasi espressionista, che si sofferma, si prende le sue pause e i suoi rischi, indugia e rifugge la velocità in favore di una lentezza che però non è contemplativa, ma è riflessiva, è pensiero che si ferma e si fa spazio, un proprio spazio voluto, cercato, conquistato, a dispetto di ciò che c’è attorno, di ciò che avviene e basta. La vita di Donya non è comoda. La sua situazione è scomoda. Deve trovare la sua sedia. E le vite passano attraverso i momenti. E, forse, nemmeno c’era scritto sul suo biglietto nel biscotto della fortuna, ma appena le si presenta l’opportunità Donya la coglie. Non sa se ne sarà capace, se sarà all’altezza, ma ci prova. E diviene lei stessa artefice di piccoli segni del destino che chiunque di noi legge attribuendo il significato che più gli si confà, che più veste i propri desiderata, la propria piccola speranza che qualcosa accada a mutare  l’ordine delle cose. Che il nostro piccolissimo personalissimo deus ex machina intervenga in nostro favore, indicandoci la strada, sottraendoci un onere, aiutandoci, in buona sostanza, a sopravvivere al meglio delle nostre possibilità.

Donya è sempre straniera a qualcuno. Mai a sé stessa, nonostante il retrogusto di un vago senso di colpa.  Lo è per la comunità afgana cui appartiene ma a cui non si attiene totalmente per stile e usanze. Comunità che la ritiene tale per aver fatto a suo tempo da interprete per l’esercito americano a Kabul. Lo è per gli americani che comunque la considerano pur sempre un’afgana in territorio Usa. Lo è per la famiglia cinese che produce i biscotti della fortuna presso cui lavora, prima come operaia confezionatrice e poi come ideatrice dei testi dei bigliettini da inserire all’interno. L’esordiente Anaita Wali Zada che interpreta Donya, lavora di giustezza. Né per enfasi, né per sottrazione. Un equilibrio che mantiene netti i confini e che nulla toglie per intensità, alla profondità di sguardo di una donna che cammina da sola – non solo metaforicamente, data l’insonnia di cui soffre – che per certi versi, non solo estetici o cromatici, ricorda i tratti della protagonista di A Girl Walks Home Alone at Night (analogamente presentato al Sundance) dell’iraniana statunitense Ana Lily Amirpour, incontro a ciò che le riserverà il destino.

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Una piccola parte in grado di lasciare il segno è affidata a Jeremy Allen White/Daniel, meccanico solitario dal cuore gigantesco. Sguardo limpido e liquido – ricorda lo scapigliato giovane Charlie Chaplin – è uomo di poche parole, tenerezza confusa e silenzi. Farà breccia in Donya, con il suo minimalismo emotivo capace però di annullare le difese di lei. Sarà quello che sarà. Ma l’orizzonte è finalmente aperto, il domani ha un sapore nuovo.

Un film che rimane a lungo nel campo visivo di chi guarda. Caratterizzato da uno stile che aggira le secche del mero esercizio – per quanto impeccabile – e si afferma con la forza e la dolcezza dei suoi protagonisti, di una scrittura convincente e di un contesto che mette in campo contraddizioni e aberrazioni di società incapaci, per motivi storici, geopolitici, economici, di aprire un vero tavolo di confronto di civiltà.

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