Titolo originale: Vanskabte land
Regia: Hlynur Pálmason
Anno: 2022
Produzione: Danimarca, Islanda, Francia, Svezia
una recensione a cura di Elena Pacca
Religione Natura Cultura Lingua. I punti cardinali che delimitano l’orizzonte asfittico del formato 4:3 di Godland, arida parabola che, come in una fotografia – spunto presunto che dà il là al film – difetta di spessore e profondità tridimensionale. Non ci si chiede mai perché i personaggi agiscano come agiscono. Se ne prende atto in un dato di fatto che alla fine risulta estenuante, sterile e glaciale. Un obbligo scaglia Lucas, giovane prete luterano, lungo la traiettoria incerta e irta di ostacoli di un viaggio interminabile dalla Danimarca per edificare una chiesa in una Islanda desolata, impervia e ostile. Il conflitto tra le due culture si inasprisce in un crescendo di asperità declinate sul viso dei protagonisti senza reali motivazioni, lungo un declivio di ineluttabilità. Gli unici spunti vitali, mossi da una sorta di ribellione o non rassegnazione, scaturiscono dalle due giovani ragazze, figlie del uomo che ospita Lucas. La parola di Dio è priva di significato, quando non muta. La natura fa il suo corso, indifferente alle miserie umane, riproducendosi meccanicamente in un ciclo perpetuo che fagocita ciò che viene lasciato dall’uomo sulla terra. I numi tutelari della cinematografia nordica – Dreyer, Bergman – guardano inerti a un tentativo ambizioso, ma sopraffatto dall’eccesso di formalismo. L’ambientazione paesaggistica, nonostante l’eruzione vulcanica, non basta a scaldare e ad animare un film a cui manca proprio un cuore, seppur ferito o dilaniato dal dubbio. Ed è un peccato. Quasi mortale.